In molti e differenti ambiti in cui siamo chiamati ad essere cittadini attivi per il bene comune, specie in un contesto sempre più orientato alla cooperazione delle diversità, sentiamo parlare di “quote rosa”.
E contro ogni logica e magari aspettativa (dato che chi scrive appartiene al genere femminile) il termine “quota rosa” non mi ha mai convinta.
Anzi, non mi piace.
Ho sempre pensato che non è necessario un contenitore in cui andare a racchiudere, proprio per poterne dare maggiore cura e valore, la necessità di introdurre figure femminili nel fare politica, così come nel fare impresa e in tanti altri ambiti.
Il valore lo si crea dando valore e posizionando la donna in un contesto che le permetta di esprime al meglio le proprie potenzialità.
“Non sei tu ad essere andata fuori tema all’ultima riunione. E’ il cliente che non è stato esplicito nelle sue richieste. Alla prossima sarai più incisiva”.
Una sorta di contentino quando invece l’affare è saltato proprio per lo scarso impegno e incapacità della manager.
E dopo tutto magari anche una carezza sulla testa (è pur sempre una donna!).
Questo è proprio quello che non va.
Ad oggi, questo viene definito “pregiudizio di genere di seconda generazione”.
E’ un pregiudizio che erige barriere più subdole e spesso invisibili per la carriera delle donne, barriere costruite su preconcetti strutturali e organizzativi, pratiche e modalità di interazioni che, andando palesemente a vantaggio degli uomini, impediscono sul nascere lo sviluppo e la crescita del potenziale di leadership di una donna per fare impresa.
Quando si verifica?
Quando ad esempio si evita di criticare una donna come si farebbe con un uomo, le si evitano determinate mansioni “da uomo”, si guarda alla flessibilità d’orario richiesta per la famiglia come un problema. Giustificato, ma pur sempre un problema.
E’ inutile nasconderlo: ancora oggi, nel momento dell’assunzione di una donna, o ancora peggio di una sua probabile promozione, si pensa:
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- “si sposerà?
- Avrà figli?
- Sarà disponibile alla mobilità (con il seguito a carico)?”
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Se si pensa al manager solitamente si immagina un uomo in giacca e cravatta con tono deciso e austero che sa perfettamente quando dire no.
Quella minoranza che invece intravede, a capo di un’azienda, una donna in tailleur, la considera quasi sempre però una risorsa meno efficace nel guidare un’impresa (“Fragilità, il tuo nome è donna!” – decantava Amleto).
O se invece si pensa ad una donna decisa e determinata si pensa anche alla sua scarsissima simpatia tra i dipendenti e per assurdo al culmine di tutto, alla sua scarsa femminilità.
E’ come se essere leader, saper fare impresa sia una questione di genere:
“sì, una donna può farlo ma non sarà mai un uomo”.
Si possono far tutti i ragionamenti del caso sull’eticità di fare impresa introducendo una maggiore presenza femminile, ma alla fine anche chi fa inclusione a 360° molto spesso non la pratica davvero, non andando a modificare proprio quello che è l’approccio al lavoro.
Ci si ritrova in una sorta di miopia aziendale.
Per poter leggere la realtà, il modo e la qualità di fare impresa urge una visita dall’oculista e la prescrizione degli occhiali.
Alla fine starà a noi scegliere una montatura piuttosto che l’altra e da questo, oltre ad avere un beneficio in termini di salute per la nostra vista, avremo eventualmente anche gli apprezzamenti della gente che incontriamo.
Fare impresa al femminile: valorizzare l’identità di genere
Come emerge da numerosi studi e tendenze in atto ci si sta sempre più approcciando ad un nuovo modo di fare impresa attraverso la crescita e la valorizzazione della donna come leader.
Questa infatti sta sempre più emergendo come figura strategica nel creare valore per l’azienda attraverso quelle che sono modalità meno convenzionali di approccio al fare impresa:
le donne, per loro natura, sono meno politicamente inclini a definire se stesse in termini di carriera, più collaborative, più orientate alle relazioni.
Qualcuno potrebbe replicare che è solo un punto di vista non obiettivo per giudicare la realtà.
La risposta invece viene da una ricerca effettuata dalla University of California di Irvinie: il cervello umano conterrebbe circa 6,5 volte più materia grigia di quello delle donne, mentre il cervello delle donne avrebbe quasi 10 volte più materia bianca di quello degli uomini.
Non mi sto “dando la zappa sui piedi” e quindi smontando la mia precedente affermazioni ma, dati alla mano, la scienza afferma che:
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- la materia grigia caratterizza i centri di processazione delle informazioni e questo fa si quindi che gli uomini siano più orientati a scegliere compiti che dipendono dalla pura processazione (un uomo è più orientato alla mission);
- la materia bianca facilita le connessioni tra i diversi centri e questo comporta un approccio più efficace a quei compiti che richiedono l’assimilazione e l’integrazione, nonché un approccio sistemico alle situazioni (la donna è più orientata al processo che porta alla vision).
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Attraverso l’approccio sistemico infatti si ha visione complessiva ed integrata della realtà che viene percepita come un insieme di parti interdipendenti tra loro e quindi collegabili: un sistema appunto.
Tranquilli…a livello di test di intelligenza è emerso che non è possibile parlare di superiorità di uomini o di donne quindi nessuno dei due è superiore all’altro. (Qualcuno si stava già illudendo?)
La differenza, invece, sta nell’impatto che la loro forma mentis può avere sulle modalità di decisioni.
La soluzione migliore sarebbe ovviamente quella di far intrecciare i due modi di prendere le decisioni e, arduo compito dell’impresa stessa, andare a valorizzare il modo di fare impresa e il soggetto in sé, per quello che è e quello che è il suo potenziale.
Il valore di un’azienda non può essere solo giudicato in base alla capacità della stessa di “fare cassa” ma dalla capacità di valorizzare le persone che sono il mezzo per raggiungere questo fine.
Un modo di fare impresa che valorizzi ogni dipendente o collaboratore attraverso l’inclusione, lo sviluppo di team work, deve saper quindi valorizzare in modo strategico la ricchezza che deriva proprio dalla diversità delle persone.
A dare manforte a questo modo di percepire il nuovo fare impresa è corso in mio aiuto Dino Segre che ha straordinariamente affermato
“È una donna e perciò vede la vita come non la vediamo noi, e certe volte ci insegna a guardarla; comprende sfumature, percepisce sottigliezze che i nostri sensi non registrano; sa trovare nel vocabolario quell’aggettivo che a contatto con un sostantivo crea imprevedibili effetti. Se è vero che la donna è il complemento spirituale dell’uomo, essa vede l’altra faccia della verità”.
Roberto Lorusso
Founder and Ceo Duc In Altum srl